Spero, un giorno, di poter restituire questo amore
“Ci sono storie più difficili, altre meno difficili. Questa è la mia storia, la mia vita”.
Non nasconde l’emozione Linda o, come la chiamano qui, Lindita, nel cominciare il suo racconto, che parte quasi tredici anni fa dall’Albania.
Ero felice, aspettavo un figlio.
Con mio marito avevamo preparato tutto: il letto, le cose di casa.
Il giorno in cui Eriol è nato c’era un clima di festa.
Ma dopo quarantott’ore gli è venuta la febbre e l’abbiamo portato in ospedale. Gli hanno fatto una flebo e le prime analisi: una leggera ripresa e poi un nuovo peggioramento. Piangeva, aveva dolori. Ci siamo precipitati all’ospedale infantile di Tirana, ma anche qui, visto che il bambino mangiava e sembrava crescere bene, ci hanno detto che non c’era troppo da preoccuparsi. Alcuni mesi dopo, con la febbre alta, ha avuto una convulsione. E sono cominciati i problemi con l’udito e con la voce e un leggero ritardo psicomotorio. Non riusciva a tenere su la testa.
Tramite mio fratello, che aveva alcuni contatti con Roma, ci siamo rivolti all’Associazione KIM. Era il 2003 ed era difficilissimo entrare nell’Unione Europea dal nostro Paese. Servivano documenti e particolari garanzie. La Kim si è occupata di tutto, finché l’Ambasciata non ha rilasciato il visto. Ricordo bene la notte prima della partenza: preparavo le valigie e pensavo a mia figlia e a mio marito che stavo lasciando per la prima volta. Via dall’Albania. Dove sarei arrivata? Com’era l’Italia? L’avevo vista in televisione, avevo dei parenti lì, ma non ne sapevo niente.
Né sapevo che, da quel momento, la mia storia e la mia memoria si sarebbero intrecciate per sempre con quelle di chi vive questa casa.
In soggiorno, al nostro arrivo, c’erano diverse mamme con i loro bambini ammalati, e operatori e volontari. Ho vissuto i primi abbracci e le prime attenzioni con una certa diffidenza. Non mi conoscevano. Perché mi offrivano la loro amicizia?
Ma ne avevo bisogno. Eriol aveva otto mesi e lo allattavo ancora. Ha subito un intervento alla vescica molto delicato al Bambin Gesù e poi, finalmente, ha incominciato a riprendersi. Nelle mie nuove giornate c’erano persone ad aspettarmi la sera, ad accompagnarmi in ospedale, a darmi un letto e un pasto. E volontari e medici, che non hanno mai fatto differenze fra noi e gli altri pazienti, per la nostra provenienza.
A casa l’incontro e il confronto con le altre mamme e con le altre culture è diventato quotidiano e mi ha insegnato tanto. Veniamo qui da tutto il mondo. Da diversi Paesi dell’Africa e dell’Europa. Dal Kosovo e dall’Albania, dall’Ucraina e dalla Russia. Abbiamo sempre cercato un punto d’incontro e stretto amicizie profonde. Chi è superiore? Chi è inferiore? Siamo tutti uguali. L’ho imparato qui. Insegno al liceo e faccio tutto quello che posso, quando torno in Albania, per dare una mano a cambiare la mentalità dei ragazzi, anche raccontando la mia esperienza. Lì non c’è molta immigrazione e non sono abituati a questi confronti. Non lo ero nemmeno io.
Fino a sei anni Eriol ha dovuto farsi forza: sempre avanti e indietro dagli ospedali, fra controlli e interventi. Veniamo in questo mondo pieno di rumore e di problemi, dove le domande sono più delle risposte. Perché io? Che cosa ho sbagliato? Tante volte me lo sono chiesta. Ma Dio non ti lascia cadere. È una mano forte e, se ti lascia da una parte, ti aspetta e ti sostiene dall’altra.
Ricordo quando siamo tornati dall’ospedale con le nuove scarpe ortopediche: “Eriol cammina!”. Erano tutti felici, proprio come noi. C’è una tradizione molto bella, qui a casa di KIM: quando un bambino viene dimesso, o quando compie gli anni, Antonietta (che sovrintende alla gestione della casa) gli prepara sempre qualcosa di speciale. Come si fa in famiglia. E quando si sta male, si sta male insieme. A volte abbiamo la morte dentro.
Ricordo una bambina del Kosowo. Sarebbe tonata nel suo Paese dopo pochi giorni, perché non c’era più niente da fare. La bambina non sapeva niente. Per lei era uno dei tanti arrivederci. Abbiamo fatto festa, con la torta e tanti regali. Era l’ultima volta che la vedevamo.
Grazie a Dio Eriol non ha questa storia. Quando partiamo, la sensazione è sempre quella di aver fatto un passo in più. Di aver vinto un altro futuro. In ottobre mio figlio compirà 13 anni. Sta meglio, anche se ha ancora tanti problemi con la schiena, l’equilibrio e i dolori. Il prossimo intervento – ci hanno spiegato i dottori – sarà molto importante. Noi siamo pronti e aspettiamo che ci chiamino.
Fra pochi giorni torniamo in Albania. Al nostro quotidiano di casa, scuola e famiglia. La sveglia presto, preparare la colazione, poi con i miei studenti. Il pomeriggio seguo i figli nei compiti. Mia mamma vive con noi, così abbiamo un po’ d’aiuto. Alla sera, quando tutti dormono, riesco a studiare un po’. È molto difficile tirare avanti e pensare a tutto, specialmente da quando mio marito non lavora più, ma la vita mi ha insegnato a pensare che domani andrà meglio.
Ora ringrazio Dio di quello che ho ricevuto. Mi capita di pensare a come sarebbe la nostra vita, se non fossimo stati qui. Per me, Eriol è figlio di questa casa e solo chi vive situazioni come la mia può capire cosa intendo. Spero, un giorno, di poter restituire questo amore.
Lindita si gira verso il muro e traccia una linea curva con il dito.
“È come aver percorso una strada. Adesso, finalmente, riesco a vederla”.
(Bibi Palatini)